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mercoledì 20 maggio 2015

QUELLA FORSE COSA BUONA

di Eugenio Bucci

beva

[bé-va] n.f.


1. degustazione di un vino; il momento in cui un vino è buono da bere
2. (ant.) bevanda


Ogni tanto io e il mio amico immaginario riflettiamo su cosa significhi bere e, più nello specifico, bere vino, cosa che massimamente pratichiamo e che ci piace più di ogni altra.
Il mio amico, che è immaginario e quindi me lo dipingo un po’ come pare a me, verbalmente rientra nella categoria dei rompipalle e, per certi versi, lo si può definire più una moglie che un bff (best friend forever) con tutte le implicazioni del caso, ossia amore/odio, improvvisi desideri di strozzarlo e di baciarlo allo stesso tempo, conoscenza reciproca delle peggio cose, e insomma, avete capito. La categoria dei rompipalle ha molti difetti ma anche un sacco di cose belle: capacità di giudizio fulminante, cioè, pure quando sbagliano almeno vanno dritti al punto; dialettica aggressiva e incalzante, cioè, se ti vedono esitare iniziano a prenderti a schiaffi e a ripetere “Allora? Allora?”. I rompipalle sono il coach che ti spezza o ti fa crescere.
Il mio amico, si potrebbe anche dire, è un martello che batte ad ogni frase e l’incudine sei tu che ascolti. In qualche modo, ci completiamo. Siamo le due facce della stessa medaglia, gli amplificatori delle reciproche parti nascoste. A me piace pensarla così.
Soprattutto, io e il mio amico riflettiamo su ciò che ci piace e sul come far capire all’altro perché ci piace quella cosa e quell’altra meno: questo ci piace. Capire quando una cosa è buona per noi.
Certe volte è facile. Almeno in apparenza. Bevi, chessò, un Cornelissen e ti sembra di poter dire che la cosa è talmente palese che te l’hanno letteralmente sbattuta sotto il naso, che è innegabile. Ma a me e al mio amico piace immaginare di avere di fronte un pubblico di bambini. Insomma, un pubblico di carinissimi e adorabili rompipalle.
Perché? Perché? Perché?
Così fanno i bambini. E allora tocca darsi un tono e spiegare. E quando spieghi metti ordine. A loro e a te stesso. Non basta dire che è buono, bisogna dire perché è buono.
Perché?
Per rispondere bisogna tornare a qualche settimana fa. Io e il mio amico immaginario commentavamo gli assaggi migliori tra le varie fiere, main e collateral, e lui si ritrovava a parlare di questa tendenza allo snellimento, al calo delle gradazioni, al ritorno prepotente dei vini più immediati, insomma, quella-forse-cosa-buona che sta succedendo adesso, nelle vostre case, amici vicini e lontani, e, giustamente, nello constatare ciò si era lanciato in discrete lodi puntando l’indice sui vari aspetti positivi, come il ritorno ad una naturalità della beva e la fine di certe esasperazioni ipermoderniste etc etc, bene bene bravi bravi. Epperò l’amico ad un certo punto si è fermato ed è stato come se riavvolgesse il nastro nel mangiacassette delle sua testa, Beva, era tornato al punto in cui aveva pronunciato quella parola, Beva che è una parola vecchia eppur nuova, un concetto rismaltato e lucidato a specchio, aveva quella faccia come dire “Che cazzo significa?” perché il mio amico (rompipalle) ha orrore delle parole buttate a casaccio. E ha iniziato a blaterare a voce alta che si, insomma, sono (ri)apparsi i vin de soif e niente sarà più come prima, o tutto tornerà ad essere come prima, perché ora è un po’ più chiaro cosa sono, li abbiamo bevuti, li beviamo sempre più, li berremmo fino all’ultima cirrosi. Cioè, è chiaro che Beva è una parola chiave del momento, rifletteva il mio amico, per quanto ci si possa fidare del momento, io e momento, in effetti, ci guardiamo un po’ in cagnesco, comunque, è impossibile non notare come Beva-e-i-suoi-derivati si sentano ogni 3X2 spulciando tra i social e pure nella Gazzetta Dello Sport, ed è impossibile non leggere cose del tipo,
una beva pazzesca!; un vino da berne a secchiate, a canna, a imbuto, a garganella; un vino che dovrebbe essere venduto solo in magnum; vin de soif, vino da sete, vino da cannuccia; un vino da assumere per endovenosa etc.
Ma, e la domanda nasce spontanea come una fermentazione, nel momento in cui un neurone si riattacca, nella pausa tra una tracannata e l’altra di questo favoloso vin-de-soif, cosa ci dice (appunto) quel neurone? Che qualità riconosciamo in quel vino per buttarlo dentro la categoria beva?
I limiti delle definizioni sembrano spesso recinzioni traballanti. Basta una mandria di sofismi e terminologie chiaroscure per buttare giù tutto. Però provarci ha un senso. E’ il bambino scemo e rompipalle che è in noi. Ed è il bambino davanti a noi con gli occhioni spalancati che continua a chiedere Perché? Cos’è? Dov’è? finché o lo piazzi davanti alla TV a stordirsi o gli rispondi.
Signore, scusi, cos’è la beva?
Figliolo, Beva è quella cosa che induce papà ad attaccarsi ad una boccia come se fosse la tetta di mamma e non è proprio sete ma più voglia di qualcosa di buono. Beva è una cosa che ti porta a stordirti come quando tu guardi Peppa Pig per 7 ore consecutive perché senti un friccichio nel core e ti diverti tanto e senti che è tutto bello e gentile e il tempo vola.
Si, signore, ma cos’è che beva?
Ecco, frugoletto, questa cosa è più complicata. Quando papà si riprende da quell’estasi inebetente, come quando tu ti riprendi da quelle 7 ore di immersione in un mondo maialecentrico, a papà si riattacca un neurone e quel neurone, diciamo, tira le fila prima di tirare le cuoia. E le fila da tirare sono abbastanza perché sono tante le cose che portano alla beva. Una parte importante è l’equilibrio, ne sono (quasi) certo. Tannico-acido che si incontra virtuosamente con le componenti dolci in una specie di perfetto palleggio infinito tra Borg e Nadal. Quel senso di rotondità non molliccio e sbracato. Dinamico, nel senso che ti fa indossare gli occhialetti e ti fa partire la bevuta in 3D. In cui le varie componenti giocano insieme, per la stessa squadra. Un senso di unità cazzuto come un rito pre-partita degli All Blacks. Un parametro (quasi) misurabile, comprensibile, analizzabile a parole e non solo. Quel percepire le diverse sensazioni arrivare al momento giusto nel posto giusto.
E il Fattore A? L’Alcool? Uno (relativo) shock culturale è per i gradi a cui viaggiano certe bottiglie. 12°. 11°, pure 10° in certi casi. Less is more? Ni. Boh. Forse. Dipende. Dipende non è una risposta ma uno stato d’animo. Dipende. Se incontri ancora una volta certa Francia capisci che un vino che parte in equilibrio e sanità di uve, ti dà sapore e gusto e pure discreta consistenza, dritto dalle parti della beva. Se ti è capitato, ad un certo punto della vita, in piena bagarre ultramuscolare, sballottato tra i 3 bicchieri e i 100/100, tra i 40 e passa g/L di estratto, se ti è capitato di incontrare uno Syrah de l’Ardèche o un Trousseau della Jura sventolanti uno snobistico 10°; e, Dio non voglia, se a quel punto hai iniziato a supporre che le uve saranno state così-così mature e polpute e deboli deboli; e quando hai finito di cazzeggiare supponendo e sei andato dritto al bicchiere ti sei accorto che in realtà quella che avevi sotto il naso e tra i denti era un’esplosione di sapore e per quanto sottile potesse apparire, quella sottigliezza era un sasso lanciato nello stagno dei tuoi preconcetti che avrebbe fatto onde per il resto della vita; se ti è capitato questo, capisci che la risposta riguardo il Fattore A è non solo Dipende, ma Dipende davvero davvero.
E poi facciamo un bel back-to-the-basics, il matusa che è in me è ancora lì a menarsela con la consistenza. Da che parte sta nei vini da sete? Da che parte la ficchiamo? Lotta con noi o contro di noi? Ce ne frega o non ce ne frega? Può succedere che da bonus diventa malus? La consistenza, che era il monolite nero, che innalzava il vino da acqua a qualcosa’altro, per papà tuo conta ancora tanto ed è importante perché la consistenza è frutto di un frutto () portato a piena maturità e questo costa fatica e rischio e soldi e spesso procura piacere. La consistenza, agganciata ad altri parametri virtuosi, innalza il piacere. Ed è quindi importante. Ma non-più-così-importante?
Forse. Perché c’è qualcosa di più insondabile. Che però dobbiamo sondare. Qualcosa che viaggia al ritmo di Parole Parole Parole, perché è l’unico modo per misurarlo e misurarci. Il sapore, il gusto. Un sapore che ci inviti a bere. Che, attraverso i cortocircuiti dei ricordi, attraverso quello schedario incasinato e impolverato che abbiamo in testa sotto l’etichetta MEMORIE, ci riporti a sensazioni piacevoli. Un rimando all’aromatico, alla frutta, ai funghi, alla salsedine, ai fiori, al minerale, alla kriptonite, a qualsiasi diavolo di roba ci ricordi una-cosa-buona. Il sapore che ci arriva diretto, un masso di sapore che rotola direttamente dalla cima del bicchiere verso i nostri sensi. Senza interferenze, se possibile. Senza interferenze ma scavallando l’Integrità che non è un parametro morale (in Italia è stata sostituita dallo zeligismo) ma un parametro gustativo, quello che rimanda direttamente al frutto-uva ai 100 all’ora senza godersi il panorama o deviare un attimo dal percorso, l’integrità che una scuola degustativa di derivazione, diciamo, enologica considera per molti aspetti un fondamento nel giudizio del vino, scuola che, approcciandosi verso certi sapori e difetti-da-manuale-di-enologia, tende a segnare con la matita rossa. Giustamente, per carità, e spesso con enorme competenza tecnica smontano un giocattolo che a te piaceva. E pur sapendo quanto sia comprensibile e assolutamente chiaro e tecnico questo approccio e questa indicazione di gusto, a volte mi pare che, davanti a quei pezzi di giocattolo buttati per terra, ci si perda, come dire, il quadro d’insieme e, in definitiva, ci si perda qualcosa di importante a non lasciarsi trasportare nella veemenza a volte imperfetta di un così intenso sapore (appunto). Ecco. Anche a me piace andare ai 100 all’ora verso il frutto e schiantarmi verso quella dolce-morte-apparente che sono certi vin-de-soif (e quando voglio giocare a Crash, io inforco una Dard & Ribo). Ma spesso per arrivare a quel frutto tocca rallentare, deviare il percorso, guardarsi il panorama e qualche volta forare o sbagliare strada o fondere il motore. Insomma, fare un viaggio.
E guardate dove sono siamo stati di recente.





Bianchetto 2014 (Lammidia): Marco Giuliani e Davide Gentile hanno studiato, hanno girato, assaggiato, lavorato, e poi sono tornati nel loro Abruzzo a fare vino. Non hanno vigna e allora comprano l’uva e iniziano a vinificare. Lammidia si fanno chiamare. L’invidia, il malocchio da togliere (su Gastrodelirio c’è una breve presentazione). Il Bianchetto è trebbiano. Questo l’ho scoperto dopo averlo bevuto. Col trebbiano in Abruzzo iniziano i paragoni importanti. Ma qui ci si sposta leggermente verso ovest. Coi paragoni, dico. Perché ho scoperto un’altra cosa dopo averlo bevuto. E cioè, che pare che siano amici di Antonuzi-Mr Le Coste. E mi si è chiuso un cerchio mentale. Perché Il Bianchetto ‘14 è un simil-Litrozzo. Meno esplosivo, senza quel quid aromatico dei migliore Litrozzi. Ma molto simile. Un fratellino. Più nitido e misurato, per certe cose. Con parametri alti su 2 tra le meglio cose: equilibrio e sapore. Col naso dove le componenti vegetali (quel filo di peperone, quella nota di erba tagliata) si mixano e shakerano con il giallo della pera, di frutta matura ma mai ossidata. Dove la bocca si dichiara apertamente minima, di consistenza a regimi bassi. Dove, eppure, assapori davvero un sapore puro e praticamente senza interferenze. Dove leggerezza fa davvero rima con beva.
87/100  




Ombra 2014 (Farnea): Marco Buratti sta sui Colli Euganei. Ha 2 ettari e mezzo di vigna. Fa il viticoltore da qualche anno. Non usa chimica. Né in vigna, né in cantina. Non fa fiere. Se ne fotte delle guide. Così dicono. Insomma, pare un bel personaggio. Qualche mese fa comprai diversi suoi vini. Alcuni buoni, altri meno. Poi, a gennaio, compro l’Ombra. Che mi fa un sacco di simpatia. Perché è da un litro. Un tipo di formato che implicitamente significa vino da bere a secchi. E perché è tappato con una bella corona. Le uve sono merlot e cabernet sauvignon. Fa macerazione carbonica. Costa il giusto. Fin qui tutto bene. Tutto incastrato in paletti che me gustano, amigo. E l’attacco al naso è diretto, vegetale spinto a manetta e acidità che spara forte come una mitragliata nell’aria in un matrimonio balcanico. Poca finezza, tanta rusticità. E qualche scricchiolio. Un’interferenza che appare dopo qualche minuto. Un odore di chiuso, di stantio, di polveroso. Che ricompare in bocca, una bocca lieve, sottile, 10,5° stile foglio-di-carta, che si apre sempre sul vegetale/acido e cabernetfrancheggia inseguendo un’idea di Loira, stimola una certa idea di beva. Ma si tarpa in quel finale, in quella chiusura avvertita al naso che tira il freno a mano alla beva, che si amplifica in un panorama di consistenza minima. Finale che sembra a volte il corrispettivo di certi vini palestrati così anni 90, quando una massa glicerinosa ti impasta(va) la bocca e rimanete te e la bottiglia mezza piena a fissarvi.
79/100

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